Biblioteca Civica Bertoliana

Novità

Il carnevale di Nizza e altri racconti

Il carnevale di Nizza e altri racconti

Come fa una giovane donna di appena trent’anni, qual era all’epoca Irène Némirovsky, a scavare così profondamente nell’animo umano? si chiese Bernard Grasset, il suo primo editore, leggendo questi racconti. Come fa a capire, e a descrivere in modo così empatico e al tempo stesso spietato, non solo le lusinghe e le illusioni della giovinezza, ma anche la nostalgia degli amori perduti, il rimpianto delle vite non vissute, l’acredine delle esistenze sbagliate, le ferite dell’ambizione frustrata, l’angoscia della solitudine, lo sgomento per i segni che lascia sul corpo il passare degli anni, la ferocia che si annida nel cuore degli uomini? Le prove giovanili di Némirovsky continuano a riempirci di stupore non meno di quelle della maturità: le quattro «scenette», per cominciare, di sapore quasi lubitschiano, dove due aspiranti attricette di incantevole amoralità mettono in opera comici e insieme patetici tentativi di trovare un uomo molto ricco che le mantenga; i tre «film parlati» – in realtà vere e proprie narrazioni, condotte con la mano sapiente di uno sceneggiatore navigato, in grado di dare indicazioni su inquadrature, stacchi, dissolvenze, montaggio; gli struggenti "Una colazione in settembre" e "Le rive felici"; il truculento affresco finlandese dei "Fumi del vino"... Fino al sorprendente "I giardini di Tauride", che appare qui in volume per la prima volta, e che, costellato di appunti in cui Némirovsky riflette sulla forma stessa del racconto, ci consente di gettare un’occhiata indiscreta nel suo laboratorio.

Storia di una brava ragazza

Storia di una brava ragazza

Se nascere femmina può complicarti la vita, figuriamoci nascere femmina in una borgata romana alla fine degli anni Settanta. Crescere, scoprire l’altro sesso, le differenze di classe, e la vergogna. E andartene dall’altra parte del mondo, sposarti, fare figli, divorziare, costruire una carriera, con tutto lo sforzo che implica cambiare il proprio destino. Arianna Farinelli è una politologa: ha insegnato alla City University di New York, viene da un quartiere popolare. Negli anni del liceo si vergognava di abitare «allo sprofondo», ma grazie al lavoro da barista della madre ha fatto un dottorato negli Stati Uniti. Eccellere nello studio era un modo per essere vista al di là del suo corpo, che i maschi tentavano continuamente di predare, maldestri e ingordi come si è nell’adolescenza, soprattutto in un Paese sessista, in cui fino al 1996 lo stupro è stato reato contro la morale anziché contro la persona. Che cos’è un corpo femminile, che cos’è una donna? Farinelli si interroga e ci interroga, mettendo a nudo la sua storia personale e quella delle donne della sua vita: la nonna, la madre, le amiche di sempre. Facendo appello alle scrittrici che hanno segnato la sua strada, da Annie Ernaux a bell hooks, da Virginia Woolf a Susan Sontag, porta il loro sguardo fino alla periferia romana, per esplorarne le dinamiche primordiali e restituirle con irresistibile ironia. E ci racconta una tormentata emancipazione, senza negare le contraddizioni che toccano ciascuna di noi: l’aver introiettato, malgrado la fatica fatta per combatterlo, tutto il patriarcato possibile. «Puoi davvero scappare da un destino quando quel destino è scritto sul tuo corpo di donna?»

Il frutto più raro, o la vita di Edmond Albius

Il frutto più raro, o la vita di Edmond Albius

La vera storia dell’uomo che ha scoperto come coltivare la vaniglia, il frutto più raro. E di come l’invenzione di una nuova tecnica botanica abbia cambiato il destino di un intero paese. Nel XIX secolo, nella colonia francese dell’isola di Bourbon (oggi Réunion), nasce Edmond, un ragazzo creolo figlio di schiavi. Orfano dalla nascita, viene accolto e cresciuto dal colono francese Ferréol, un botanico vedovo e appassionato di orchidee, che gli trasmette l’amore per le piante. Nella tenuta di Ferréol, Edmond si accontenta di lavorare come giardiniere, nutrendo in segreto il desiderio di seguire le orme del padrone e osservandolo attentamente nel suo lavoro, per raccoglierne gli insegnamenti. Il suo destino sembra segnato, ma Edmond ha un talento e una determinazione capaci di sfidare la sorte e, a dodici anni, fa una scoperta straordinaria che cambia per sempre il destino dell’isola. Nel 1841 scopre un metodo per impollinare manualmente la pianta di vaniglia, un’impresa mai riuscita a nessuno prima di lui. La scoperta di Edmond è rivoluzionaria e scuote le fondamenta sociali ed economiche della colonia francese, rendendo finalmente possibile la produzione su larga scala di vaniglia che, ancora oggi, è il simbolo della Réunion. Nonostante l’impatto epocale della sua scoperta, la vita di Edmond non prende però la piega che ci si aspetta. Resta uno schiavo, privo del riconoscimento per il suo talento e, anche dopo l’abolizione della schiavitù, il suo futuro è tutt’altro che promettente. Attraverso la storia di Edmond, raccontata con ironia e passione, Gaëlle Bélem ricostruisce quella di La Réunion, dall’arrivo dei primi coloni europei al decreto del 1848 che pose fine alla schiavitù. Una storia dolce e amara, che celebra il coraggio di chi osa sfidare il proprio destino.

Il Dio che hai scelto per me

Il Dio che hai scelto per me

Il racconto di un coraggioso addio, ispirato alla vera storia dell'autrice, cresciuta nella comunità religiosa dei Testimoni di Geova. “Sei sempre stata un faro per la nostra famiglia”, le ripeteva sua madre. Alessandra, però, seconda di cinque figli, non voleva portare luce, voleva che qualcuno illuminasse la strada per lei e rispondesse alle sue domande di bambina. Cresciuta sotto la rigida disciplina dei Testimoni di Geova, ha sempre cercato di soddisfare le attese dei genitori e di non creare problemi. Così, fino a ventinove anni, non ha mai partecipato a un compleanno né spento una candelina. Non ha ascoltato la musica che ascoltavano i suoi coetanei né letto libri non approvati in comunità. E anche l'amore, quando l'ha incontrato, è stato subito sacrificato. Dopo aver sposato Federico, un uomo più grande scelto per lei all'interno dei Testimoni, Alessandra da figlia devota diventa moglie devota. Ma quando scopre di essere incinta qualcosa dentro di lei cambia. Non può più ignorare i propri desideri e per i suoi bambini vuole essere migliore: loro devono avere la libertà che a lei è sempre stata negata. Inizia così il coraggioso atto di allontanamento dalla comunità, un percorso di ricostruzione di sé stessa che stravolge il suo destino e quello delle persone che ama. Al suo esordio nella narrativa, Martina Pucciarelli scrive un romanzo potente ed emozionante, con il quale si inserisce tra le scrittrici contemporanee che hanno saputo trasformare la propria biografia in letteratura, come Tara Westover nel suo "L'educazione" e Deborah Feldman in "Unorthodox". Il Dio che hai scelto per me è una storia intima e dolorosissima, fatta di privazioni, abusi e violenza, ma anche un libro impregnato di una forza straordinaria che ci mostra come il coraggio di cambiare nasca sempre da una forma altissima di amore, in questo caso da quello puro e incondizionato di una madre.

Una poco di buono

Una poco di buono

Dalla scrittrice che ha creato il personaggio dell'ispettrice Petra Delicado, sei racconti di intensa dose di mistero e intreccio. Il primo racconto si apre sul cadavere di un'anziana prostituta che sembra una mascherata, «buttato lì come una vecchia bambola rotta; era perfino difficile provare pietà; tutto era così grottesco». È così che inizia anche negli altri racconti: un cadavere indefinibile, che adombra l'enigma di una realtà irreale, inverosimile, su cui si focalizza subito la procedura dell'indagine; decifrato il cadavere, poi a poco a poco si aprono squarci su ambienti al contrario apparentemente normali, famiglie ben messe, individui irreprensibili, vite tranquille. Racconta in prima persona Petra Delicado della polizia di Barcellona. E il modo in cui Petra parla e riferisce il suo procedere di poliziotta disegna, senza esplicite descrizioni, il personaggio: dall'antipatia che non nasconde per ogni cliché formale e beneducato, affiora il suo passato femminista e la gioventù radicale; dagli scambi fuori dai convenevoli con il suo vice Fermín Garzón, che punteggiano il loro ménage professionale, emerge il suo graffiante umorismo; dai silenzi al cospetto delle vittime, o di fronte ai motivi umani e disumani dei colpevoli fino a un minuto prima insospettabili, s'intuisce che è una donna sinceramente compassionevole, anche se l'instancabile tenacia nel tirare dritto la arruola da investigatrice donna nella scuola dei duri. La sua spalla Fermín, un alter ego, un Sancho Panza, un Watson, rappresenta l'immagine contraria di lei: il suo bofonchiare e obiettare, questa mano di commedia latina distesa su un poliziesco da giungla d'asfalto, nasce anche dal sospetto segreto, che certe volte sembra nutrire Fermín, che il proprio capo sia forse appena appena una poco di buono. Le indagini di Una poco di buono sono tutte già comparse, sparse in precedenti antologie pubblicate da Sellerio. Concentrarle assieme dà la compiuta idea della profonda impronta letteraria di Alicia Giménez-Bartlett, una scrittrice capace di costruire con la materia delle strade di città misteri opachi, per poi decostruirli facendo agire una galleria inesauribile di tipi presi dalla realtà.

Le ventisette sveglie di Atena Ferraris

Le ventisette sveglie di Atena Ferraris

"Mi chiamo Atena Ferraris e mi sa che non sono come gli altri, inutile girarci intorno. Mia madre mi ha sempre detto che siamo tutti diversi, e quindi è come se fossimo tutti uguali. Non ne sono convinta, ma mi fido di lei. Ho trent'anni, vesto fuori moda e odio le sorprese. E ho ben ventisette sveglie ogni giorno per ricordarmi di lavorare, di mangiare, di andare a letto, di smettere di pensare. Soprattutto faccio troppe domande, dicono. Perché per me è essenziale che ogni cosa abbia una spiegazione. Per questo dirigo una rivista online di enigmistica dove ogni gioco, rebus o anagramma ha una soluzione univoca. Mi fa sentire al sicuro. So che siamo in pochi a ragionare così. Ora, però, è successo qualcosa che ha scombinato le carte. Tutta colpa del mio fratello gemello. Febo è uno scrittore in crisi e, per ritrovare l'ispirazione, si caccia nei guai più assurdi. Al momento, per esempio, si è iscritto a una scuola di magia. Sembrerebbe una cosa innocua, se non fosse che, fra giochi di prestigio e illusioni, è inciampato in un mistero vero, di quelli che scottano. Mi ha supplicata di aiutarlo, dice che ha bisogno della mia capacità di vedere particolari che gli altri non notano. E così eccomi costretta a uscire di casa, a conoscere persone nuove e ad avere conversazioni normali. Ma forse è quello che ci vuole: forse è arrivato il momento di mettersi in discussione e capire se mia madre ha detto la verità sul mio modo di essere. A volte bisogna uscire dal guscio per capire chi si è davvero". Dopo averci fatto sognare con le avventure di Vani Sarca e Anita Bo, Alice Basso torna dai suoi lettori con una nuova protagonista: diversa, ma che assomiglia un po' a ognuno di noi. Perché siamo pieni di fragilità, ma anche di una forza che non sappiamo di avere. E Atena è qui per dimostrarcelo.

La levatrice di Nagyrév

La levatrice di Nagyrév

Zsigmond Danielovitz, incaricato di indagare sul cadavere di un’anziana contadina, è un uomo indebolito dalla guerra, ma vigile. E così ci mette poco a scorgere, dietro gli occhi degli abitanti di Nagyrév, qualcosa di sinistro. Nagyrév è un piccolo villaggio sperduto nella pianura ungherese, l’anno è il 1929 e il benessere, in quella ristretta comunità rurale, non arriva. Zsigmond Danielovitz si rende presto conto che la morte della donna sulle sponde del fiume Tibisco non è che l’anello di una lunga catena di scomparse e incidenti che da tempo coinvolgono il piccolo villaggio. "La levatrice di Nagyrév" racconta un fatto di cronaca realmente avvenuto tra le due guerre mondiali, un episodio che sconvolse l’Europa non solo per l’efferatezza dei crimini, ma anche per un inedito capovolgimento dei ruoli: le donne uccidono gli uomini, si vendicano. Superstizione, violenze, miseria e soprusi sono i protagonisti delle vite che si incrociano in questo affresco rurale, dove a fare le spese di appetiti e frustrazioni sono sempre le donne. Le regole patriarcali della comunità magiara e le meschinità dell’animo umano creano situazioni insostenibili e sofferenze ingiustificabili per mogli e figlie, anziane e ragazze. Personaggio chiave, intorno al quale girano le storie di Nagyrév, è la misteriosa Zsuzsanna, levatrice dal passato fumoso, spesso etichettata come «strega» dai suoi concittadini, temuta e, ogni tanto, rispettata, una figura carismatica, rarissimo esempio di donna emancipata, cui molte «sorelle» chiedono aiuto per risolvere i guai che hanno dentro casa: gravate da inganni, stupri e sottomissioni, le vittime hanno deciso di alzare la testa. Gli avvenimenti che ebbero luogo a Nagyrév, mostrando gli orrori di cui è capace la vita domestica e le forme di resistenza alle sopraffazioni di genere, possono essere una finestra utile, e dolorosa, per capire il presente.

L'innocenza dell'iguana

L'innocenza dell'iguana

Una sparatoria in pieno centro sconvolge Milano: un sicario in moto, nascosto da un casco integrale e una tuta di pelle, apre il fuoco su due uomini per poi dileguarsi nel nulla. Mentre il vicequestore Loris Sebastiani inizia le indagini e il giornalista hacker Enrico Radeschi si trova avvolto dalle nebbie di Venezia, emergono i primi dettagli: le telecamere della zona in cui è avvenuto il feroce agguato non hanno registrato nulla di utile, e le due vittime – il noto conduttore radiofonico Michele Carras e l’imprenditore Giovanni Fontana, ricoverati in condizioni critiche – sembrano appartenere a mondi fra loro inconciliabili. Qual è, allora, l’oscuro legame che ha finito per incrociarne i destini? Per risolvere il mistero, il poliziotto sa di poter contare sull’aiuto del cronista e sulle sue doti informatiche. Peccato che Enrico sia distratto: deve aiutare il Danese, l’amico dal passato oscuro. L’uomo è in fuga, braccato dalla polizia e impegnato nella disperata ricerca della figlia scomparsa. C’è un barlume di speranza: forse la ragazza è ancora viva e può essere salvata, ma il tempo stringe e il pericolo incombe. Ad aiutare Radeschi in questa doppia indagine ritorna Liz, giovane e brillante hacker, determinata a dimostrare il proprio valore e a superare il maestro in astuzia e capacità investigative. L’innocenza perduta, però, non si recupera, come tutti scopriranno a proprie spese, e ben presto la vicenda si trasforma in una corsa contro il tempo, con i fantasmi del passato che riemergono mettendo a dura prova tutti i protagonisti.

Le governanti

Le governanti

Questa storia si svolge in una grande casa di campagna, isolata dal mondo esterno da altissime siepi e recinzioni; qui vivono i signori Austeur, i bambini, le domestiche e, soprattutto, le loro governanti. Éléonore, Laura e Inès sono belle e giovani, dovrebbero essere responsabili dell’educazione dei ragazzi, ma preferiscono passare il loro tempo a organizzare feste e giochi o passeggiando nel grande parco in cui sono costrette, un po’ regine e un po’ prigioniere. A prima vista questa può sembrare una situazione normale, quasi banale, ma l’apparenza, come spesso accade, può ingannare. Le tre donne, infatti, hanno una grande fame di vita e sono spesso preda di un desiderio erotico frenetico e insaziabile. I loro passatempi preferiti sono appostarsi lungo le siepi che delimitano i confini della tenuta, aspettando un uomo che possa soddisfarle, oppure inseguire i giovani che, casualmente, attraversano il parco per poter godere di loro. Nell’attesa di questi eventi, vagano per la villa in una specie di calma sazia e malinconica, spiate dalla casa di fronte da un vecchio che osserva la loro vita attraverso un cannocchiale. Scritta con l’eleganza delle antiche favole, innervata da una sensualità oscura e da un sottile spirito di commedia, Anne Serre firma una folle fiaba dionisiaca in cui le tre protagoniste ci appaiono di volta in volta selvagge, allegre, crudeli, tenere, ma sempre incredibilmente vitali mentre si uniscono, si separano, si struggono e amano, osservate da un occhio implacabile che non le perde mai di vista. Un racconto che ha l’atmosfera e il fascino di un sogno.

Onesto

Onesto

Guido Contin detto Cognac abita in un casello dismesso della vecchia ferrovia adagiata tra i boschi del Cadore insieme a Moglie, la sua gatta. È anziano e non possiede più nulla se non una cartelletta piena di lettere indirizzate alle cime delle montagne e respinte al mittente. Sono pagine scritte a mano da un uomo che si firma con il nome di Onesto e racconta la sua vita con il fratello gemello Santo, l'incontro con Celeste, la guerra, la morte e l'amore. Sembrano storie semplici, di persone che accettano il destino senza porsi domande, aggrappate alla vita come i larici ai pendii più scoscesi. E invece rivelano vicende straordinarie: un rapimento, un figlio ritrovato, una terribile violenza, una bomba che cade nella notte, una fotografia nascosta tra le rocce, un segreto pieno di vergogna e, soprattutto, un amore inconfessabile che scorre attraverso la vita come un torrente impetuoso. Nella sua semplicità, Onesto ci rivela qualcosa di universale: “in molti credono che per scalare ci voglia forza, invece è proprio il contrario. Scalare, come vivere, non è questione di tenere, è questione di lasciar andare. Ogni cosa. La paura, l'incertezza, i problemi, le soluzioni, il passato, il futuro, le prese, gli appigli. Tutto quanto. Lasciare andare in un movimento continuo che avvicina al cielo”. Francesco Vidotto è un narratore capace di andare dritto al cuore delle cose. Con la storia di Onesto, Santo e Celeste ci emoziona, ci commuove, ci accompagna in alto, dove l'aria è sottile e ci si sentiamo intimamente rinnovati, capaci di guardare la vita con occhi nuovi.

Fotografare la Shoah

Fotografare la Shoah

Un'analisi, che ancora mancava, sulle modalità con cui la Shoah è stata rappresentata e interpretata attraverso le fotografie. Questo libro coglie l'importanza straordinaria di un numero cospicuo di fotografie che pur non raffigurando direttamente l'assassinio di massa hanno la capacità di illuminarci sui fatti, inquadrando dettagli o momenti che hanno costituito la scena preliminare, preparatoria o collaterale al crimine e all'universo delle vittime e dei carnefici. La Shoah non è un evento che possiamo ricostruire come un quadro illuminato dal centro, ma nemmeno è una pagina buia segnata dall'irrappresentabilità. Dobbiamo pensarlo come un processo segnato da varie forme di prevaricazione e violenza che può essere raccontato con l'aiuto di tanti tasselli luminosi - le fotografie che si sono conservate - che squarciano l'oscurità e fanno intravedere alcuni frammenti, lasciando alla nostra immaginazione quello che i documenti di archivio non mostrano. La sfida è quella di affinare la capacità di osservare e di metterne continuamente alla prova i limiti, alla ricerca di un equilibrio, o forse di un compromesso, tra due tendenze opposte che sembrano prevalere nel nostro modo di rapportarci alle fotografie storiche: l'ipertrofia del déjà-vu, generata da una saturazione di immagini che ne altera la percezione e ne cannibalizza il consumo, e la miopia o cecità del modo di guardare, che porta a ignorare o sottovalutare gli elementi visivi di sfondo, quelli informativi a corredo della foto e il suo sottotesto.

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